A livella di Antonio de Curtis in arte Totò
La poesia è ambientata in un cimitero, dove un malcapitato rimane chiuso dopo aver fatto visita alla tomba della zia defunta.
Questi assiste incredulo al discorso tra due ombre: un marchese e un netturbino, casualmente sepolti l’uno accanto all’altro, rispettivamente in un sepolcro fastosamente ornato ed in una tomba abbellita solo da una misera croce di legno, «piccerella, abbandunata, senza manco un fiore».È il marchese (signore di Rovigo e di Belluno, come ricordato alla lapide) ad aprire la surreale discussione, lamentandosi con fare polemico e mordente che la salma del netturbino del quale disprezza la miseria ed il tanfo sia stata deposta accanto alla sua.Il netturbino – tale Gennaro Esposito – all’inizio assume un atteggiamento accondiscendente, quasi di mortificazione dinanzi all’atteggiamento assurdamente oltraggiato dell’altra ombra.È solo dopo averlo lasciato chiacchierare per un po’ che il disgraziato scupatore dà libero sfogo alla sua ancestrale saggezza e ammonisce il borioso nobile del fatto che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali, grazie all’azione della morte-livella (la livella è uno strumento usato in edilizia per stabilire l’orizzontalità di un piano).Non esiste né l’eversione per i ceti poveri, né la redenzione per quelli ricchi: sono solo i vivi, come ricordato da Totò negli ultimi versi, che si attengono alle classi sociali, in realtà pura apparenza, finzione:
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive
nuje simmo serie…appartenimmo à morte
Argento e smalto